Blog Mefop
A proposito della destinazione del TFR al Fondo di Tesoreria
È certamente condividibile l’attenzione critica dedicata, in occasione dell’assemblea di Assofondipensione del 16 febbraio 2023, alla circostanza che un flusso annuale di circa 6 miliardi di contributi da TFR alimenti il Fondo di Tesoreria, a fronte dei circa 7 miliardi di flusso destinato ai Fondi pensione, aperti e chiusi[1]: un’attenzione manifestata dal Presidente dell’Associazione nella sua relazione di base e raccolta dal Presidente di Covip nel contesto del doveroso richiamo alla distinzione fra azione pubblica e azione privata nei due livelli pensionistici, cui può agevolmente ricondursi anche l’opportunità di un intervento legislativo che ripensi il ruolo della parte pubblica nell’acquisizione e gestione delle risorse di che trattasi, e dunque del Fondo di Tesoreria affidato all’INPS.
Nell’apprezzare questo approccio, certamente animato da più che ragionevoli istanze, non si può non esprimere un qualche scetticismo nell’affidamento del problema al legislatore[2], che dopo le due riforme del 1993 e del 2005 è intervenuto a pezzi ed a bocconi sull’utilizzo del TFR, con soluzioni spesso contraddittorie[3]. Posta la nota influenza dell’INPS nell’orientare il legislatore[4], ci sono infatti poche speranze di un ripensamento/pentimento, anche alla luce del messaggio di tre anni fa, diffuso dall’INPS, fra l’altro con tono particolarmente rude[5], volto a ad alzare un muro fra il fondo di tesoreria ed il sistema della previdenza complementare.
La tesi di cui al messaggio dell’INPS è questa: “il Fondo di Tesoreria è configurabile come una gestione di natura previdenziale”, conseguendone la soggezione delle “quote di TFR versate al predetto Fondo al regime della indisponibilità”, salve ovviamente le erogazioni previste dal codice civile.
In realtà, questo dato non trova riscontro nella normativa primaria né in quella secondaria (D. Minlav 30 gennaio 2007), dove si parla esclusivamente di “garanzia”, così come nessun riscontro vi è dell’affermazione circa l’applicabilità dell’art. 2116 c.c. (automaticità delle prestazioni), che anzi è addirittura esclusa dalla formula adottata dal comma 755 cit, che limita la garanzia dell’INPS “per la quota corrispondente ai versamenti di cui al comma 756”: una vera e propria superfetazione concettuale, funzionale a rivestire – attraverso una semplice circolare - la mera garanzia di adempimento dell’obbligazione datoriale degli abiti della prestazione previdenziale, che al più può invece definirsi come gestione pubblica di risorse private.
Tutto quanto precede è stato già oggetto di considerazioni da parte mia in un blog Mefop del marzo 2020, cui rimando.
Gli spunti offerti dalla ricordata assemblea di Assofondipensione[6] consentono tuttavia di aggiungere una riflessione sistemica. È noto, ma forse obliato, che nell’incipit della l. n. 335/95 – la vera e propria svolta del nostro regime pensionistico, tra la legge 421/92 ed il d.l. n. 201/2011, cui fanno da corona le numerose estemporanee modifiche, spesso sperimentali, delle varie leggi finanziarie fino ad oggi – trova collocazione (art. 1, commi 1 e 2) fra i “principi fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica” proprio “l'agevolazione delle forme pensionistiche complementari allo scopo di consentire livelli aggiuntivi di copertura previdenziale”.
Vero è che lo stesso comma 2 consente modifiche espresse del sistema, ma non è ragionevole pensare che si adottino interventi, anziché agevolativi, addirittura ostacolanti[7]. E tali sono proprio le norme dei commi 755, 756[8].
A prescindere dalla imputabilità della soluzione qui criticata (vuoi direttamente al legislatore, vuoi all’Ente), resta che si tratta di una contraddizione di sistema, un vero e proprio caso di irrazionalità normativa, notoriamente suscettibile di vaglio in termini di legittimità costituzionale, ove se ne dovessero creare le condizioni processuali. Sarebbe bene che le questioni applicative poste da queste norme fossero affrontate e risolte con criteri “costituzionalmente orientati”, e quindi nel caso ispirate a criteri di conformità al sistema.
Sia ben chiaro che la questione, che prende le mosse dai riferiti spunti emersi durante l’Assemblea di Assofondipensione, è una goccia nel mare tempestoso delle riforme pensionistiche, oggi (come al solito) al vaglio del Governo; ma è ad un tempo la spia della necessità di una revisione sistematica e ragionevole delle norme che si sono accumulate – e forse anche mancate - in trenta anni di rinnovata disciplina della materia, oramai tale anche per previsione costituzionale[10].
E soprattutto è un segnale della irragionevole - se non intollerabile, stando ad alcuni disegni annunciati - interferenza dell’azione pubblica nel settore, che ha i suoi confini nella doverosa vigilanza, peraltro e comunque specialistica, cui non dovrebbe sottrarsi, almeno in termini di indirizzo, lo stesso Fondo di Tesoreria, proprio per l’influenza che esso esercita sulle scelte di previdenza complementare.La questione non è stata ignorata da Covip, che - pur frenata dall’idea che “la disciplina e il funzionamento del predetto Fondo è materia estranea ai compiti di vigilanza di questa Commissione” - in una risposta a FAQ del maggio 2014 ha “interessato della questione i competenti Uffici dell’INPS, al fine di promuovere una riflessione sul tema e l’adozione di iniziative che, nell’ottica della rilevante finalità sociale della previdenza complementare, consentano ai lavoratori dipendenti di versare alla forma pensionistica complementare prescelta anche il TFR pregresso accantonato presso il Fondo di Tesoreria”.
Ma ci vuole ben altro che una garbata segnalazione di rango istituzionale o un invito ad un legislatore distratto!
[1] Dati offerti dall’ultima relazione Covip, che si completano con la indicazione del TFR che resta accantonato in azienda, pari a circa 16 miliardi, cioè più della somma dei due flussi di cui al testo. Le proporzioni ovviamente si riflettono sul consolidato.
[2] Non è inutile ricordare che le scelte del 2004/2005/2006 furono consumate nell’alternanza fra un governo di centrodestra ed governo di centro sinistra all’insegna della logica della spartizione del TFR: un pezzo (fisiologicamente) ai Fondi pensione – sia negoziali, sia aperti in omaggio al mercato finanziario, con i noti ritardi nell’approvazione del d lgs n. 252/05 e con l’incredibile sceneggiata dell’astensione dal voto del Presidente del Consiglio - secondo la logica della capitalizzazione individuale; un pezzo all’Erario, in forma di Fondo caratterizzato dalla logica della ripartizione, quanto mai inadatta alla gestione del TFR; il resto mantenuto in azienda. Una specie di caccia alla volpe, in cui sono ben definiti i ruoli dei partecipanti alla caccia.
[3] Lo stesso comma 756bis dell’art. 1, l. 296/2006, introdusse la formula del TFR in busta paga, rivelatasi un vero e proprio flop.
[4] Emblematica la sentenza della Corte costituzionale n.12/2018, in causa INPS c. Fondo pensioni ex CRT.
[5] Il messaggio INPS n. 413 del 4 febbraio 2020 si conclude con un pressante, quanto significativo invito alle Sezioni territoriali” di verificare che il datore di lavoro abbia correttamente adempiuto all’obbligo di comunicazione della volontà del datore di lavoro”.
[6] Visibile nel sito dell’Associazione e della quale riferisce Simona D’Alessio in Italia Oggi del 17 febbraio 2023.
[7] Ho ricordato, all’inizio del precedente blog in argomento, la più che potenziale alleanza fra Fondo di Tesoreria e lavoratore disinteressato alla previdenza complementare; un’alleanza che in tempi di elevato tasso di rivalutazione del TFR potrebbe cambiare direzione, posto che ora il Fondo di Tesoreria rischia di pagare a caro prezzo la disponibilità finanziaria che in passato era quasi gratuita.
[8] Il comma 756bis (sul TFR in busta paga), dichiaratamente temporaneo ed in palese conflitto con il sistema, si è rivelato un vero e proprio flop ed in concreto non si è posto come un ostacolo: anzi, ha paradossalmente finito per rafforzare la consapevolezza del valore del sistema pensionistico di secondo livello.
[9] Il riferimento è all’art. 23, comma 7bis, come innovato dall’art. 2, comma 515, l. n. 244/2007.
[10] Come da previsione in termini di, affermata quanto ignorata, competenza legislativa concorrente fra Stato e Regione.
Pasquale Sandulli
Pasquale Sandulli è attualmente Professore di Diritto del Lavoro nell’Univ. Europea di Roma, Previdenza complementare e Giustizia costituzionale del lavoro nella Luiss-Roma.
Tra i numerosi incarichi istituzionali, ha rivestito la carica di Esperto presso il Ministero del lavoro; componente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale e membro del collegio di conciliazione ed arbitrato dell'Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica
É collaboratore scientifico di Mefop dal 2005 e attualmente fa parte del comitato direttivo della "Riv. Dir. Sic. Sociale”.