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Il ddl di bilancio 2025: gli interventi proposti in tema di ”previdenza complementare”
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Di eccessiva ingenuità deve parlarsi a proposito di chi, come me, leggendo nelle rubriche degli articoli del ddl bilancio 2025 la formula “Misure in materia di previdenza complementare” (art. 28 del ddl), pensava di trovare qualche novità in materia. Si tratta di un titolo a dir poco fuorviante, visto che la disposizione fissa - con l’aggiunta di un comma 7 bis - solo un più favorevole criterio di determinazione della soglia minima di accesso al trattamento pensionistico di base (art. 24, comma 7, d.l. 201/2011): una norma, dunque, che, nel consentire l’aggiunta virtuale del trattamento di secondo livello a quello del primo livello, regola solo la materia della pensione di base, come risulta evidente dal categorico incipit del proposto comma 7bis dell’art. 24.
Non si tratta dell’unico caso di titolazione legislativa deviante: basti pensare alla formula “Licenziamento a tutele crescenti” usata nel Jobs act (2015) per gabbare il ritorno dalla tutela reale alla tutela obbligatoria in tema di licenziamenti: ritorno giustiziato a più riprese dalla Corte costituzionale.
Esaurita così la sbornia di ingenuità, si apre lo spazio alla proposizione di una domanda inquietante: quale è il senso della scelta governativa di assoluta indifferenza - nonostante le enfatiche ipotesi formulate in sede di preparazione del ddl - ai temi tanto dibattuti della previdenza pensionistica complementare (della quale esclusivamente qui ci si occupa) configurata come stampella del sistema pensionistico, durante la fase preparatoria del ddl. Bilancio 2025?
La risposta all’inquietante domanda prescinde, naturalmente, dalla circostanza che forse qualcosa si stia muovendo nel corso dei lavori parlamentari per l’approvazione del ddl; si tratta di una riedizione del conferimento tacito per i lavoratori in corso di rapporto da più di sei mesi, che abbiano scelto di mantenere il tfr presso il datore di lavoro, secondo il regime dell’art. 2120 c.c., e quindi (se appartenenti ad aziende con almeno cinquanta dipendenti) in gestione vincolata presso l’INPS. Questo modello, impropriamente denominato silenzio assenso ma in realtà configurabile civilisticamente come comportamento concludente (mi scuso per queste nemmeno tanto sottili distinzioni giuridiche), richiede, in via prioritaria ma non esclusiva a cura del datore di lavoro, una solida informazione sulle sue caratteristiche, così da fondare una presunzione di reale conoscenza dei termini del conferimento: un profilo sul quale la Presidente della Covip nella relazione annuale del 2023 si è significativamente soffermata.
Salvo verificare se l’emendamento 28.6 a firma Rizzetto al ddl bilancio 2025 andrà in porto, occorrerà considerare se si tratti di iniziativa felice dal punto di vista politico, il che non sembra: infatti già ora l’adesione tardiva è libera e può essere disposta in qualunque momento successivo alla scadenza del semestre iniziale, ma sempre con effetti de futuro; l’effetto sostanzialmente costrittivo del meccanismo proposto dall’emendamento che così è destinato solo ad incrementare le dimensioni del comparto garantito - potrebbe avere un diverso e maggiore successo, oltre tutto più giustificato, se si accompagnasse al recupero del tfr pregresso, ma l’opposizione politica, finanziaria e tecnica dell’INPS (sul punto, cfr. mio BLOG 5 marzo 2020, A proposito del messaggio INPS n. 413/20), ma anche dei datori di lavoro minori, non fa ragionevolmente pensare alla capacità del governo di imporre un emendamento certamente ampio ed incisivo. Il rischio, dunque, di un emendamento così rachitico è quello di un clamoroso flop, ancor più negativo psicologicamente sull’avvenire della previdenza complementare. Piuttosto (ma ne parlerò più avanti) si tratta di stimolare le parti istitutive ad un più efficace utilizzo degli strumenti contrattuali collettivi.
A questo punto, prima di abbandonare l’idea di un legislatore taumaturgo, occorre indagare se e quali potrebbero essere altri interventi che richiedono iniziativa legislativa: a questa pertengono varie aree di sicuro interesse per la fonte eteronoma, che risultano invece trascurate. Da un lato, si pensi alla previdenza complementare per il pubblico impiego, dall’altro, all’area della fiscalità: in entrambe l’inerzia del legislatore, pur da più parti sollecitato, è pesante.
Quanto al pubblico impiego, dopo la rabberciata soluzione dei profili fiscali del trattamento pensionistico complementare per i pubblici dipendenti (vedi Corte cost. n. 218/2019, con mio commento in Riv. dir. sicurezza sociale, n. 1), resta aperta la ingiustificata diversificazione del regime materiale applicabile. Per la verità, sia pure a piccoli passi il legislatore sta allineando i due regimi (dalla Rita, alle modalità di adesione), restando gli stessi disallineati ancora clamorosamente in ordine alla libertà di scelta del beneficiario, cui peraltro potrebbe porre rimedio, se sollecitata, la Corte costituzionale (lascio aperto l’interrogativo sul senso della soluzione, ben potendo la Corte disporre il ripristino generalizzato della soluzione conforme al d.lgs. 124 /93, anche in ragione della esigenza di rispettare la delega, che fissa quale obiettivo primario del secondo livello quello di implementare le prestazioni pensionistiche di base, che non conoscono la figura del beneficiario).
Quanto ai profili fiscali, i suggerimenti di Covip sono, a me sembra, addirittura preziosi. Come ho già osservato in altra sede (OG Mefop, di seguito sempre OG, n. 54), nelle sue Considerazioni 2023 il Presidente di Covip ha opportunamente ridimensionato, escludendola, l’idea – che pure, ogni tanto, si affaccia – di una lievitazione del massimale non imponibile, semplicemente evidenziando il rischio che una tale manovra avvantaggerebbe solo le classi più agiate di lavoratori, con una sorta di pressione inversa. Semmai, meritano attenzione le idee autorevolmente sostenute dalla Presidente di Covip nelle Considerazioni del 2024, in termini di riequilibramento del sostegno fiscale per le categorie mediamente meno retribuite o addirittura con rapporti precari, sulla base delle statistiche riportate ed interpretate dalla stessa Covip: giovani e donne.
L’intervento, più che contenuto se non addirittura mancato, del legislatore, lascia il campo agli altri attori della previdenza complementare: all’autonomia collettiva, alle iniziative giudiziarie, ad una maggiore oculatezza degli stessi iscritti, che dovrebbero rivendicare una maggiore informazione, se non vera e propria formazione, specialmente nelle fasi in cui viene loro riconosciuto il ruolo di selezionatori degli amministratori dei Fondi, secondo il metodo elettivo.
Per l’autonomia collettiva una vera e propria prateria si apre se solo si dovesse ripensare al ruolo del contratto collettivo come fonte autoregolatrice dei rapporti. Non sto qui a ricordare le vicende originarie del 1993, quando le fonti istitutive, acquisito il ruolo genetico e gestionale dei Fondi pensione - sia pure, dal 2006, in concorrenza con gli operatori del mercato finanziario, gettarono la spugna a fronte dell’assunzione della responsabilità politica di incidere sulla destinazione del TFR, rinunciando a far valere il vincolo contrattuale collettivo. Per la verità, da qualche tempo, e sempre con maggiore insistenza, si prospetta un intervento dell’autonomia collettiva, che ripristini il proprio ruolo di regolatore tendenzialmente generale nell’ambito delle categorie, pur dovendo aver cura di salvaguardare, mediante meccanismi di revoca tempestiva, il criterio della libertà di adesione imposta fin dal 1993.
Nel frattempo, in alcuni settori – caratterizzati da frammentazione dei rapporti e da livelli retributivi più modesti – si è avviata la sperimentazione della contribuzione contrattuale generalizzata a carico del datore di lavoro, come tecnica essenzialmente di diffusione della conoscenza del welfare pensionistico di secondo livello: la meritevole iniziativa sta mostrando la corda per la modestia assoluta del contributo contrattuale che, ove non seguito da adesione piena e formale, rende irrisoria l’accumulazione: il che pone il problema della individuazione di una nuova destinazione degli irrisori montanti, che si caratterizzi per finalità sociale analoga. L’ipotesi lanciata da Assoprevidenza di destinare queste risorse verso la copertura di long term care è meritevole di attenzione, ponendosi di certo problemi tecnici, nella conversione finalistica, non insormontabili.
Quanto alla giurisprudenza, che oramai da qualche tempo è chiamata a giudicare anche in ambito di nuovo regime contributivo, fino a livello di SS. UU., è ragionevole chiedere che, nel momento in cui ammette (cfr. Cass. SS. UU. 477/15, cui hanno fatto seguito nel 2022 altre decisioni sempre a SS. UU.: vedi le mie riflessioni in OG, n. 53, e, più ampiamente in Riv. Dir. Sicurezza Sociale, n. 4/2022) “una difficoltà nella enucleazione della posizione previdenziale individuale … (prospettando la necessità di utilizzare) … regole e metodi delle specializzazioni matematiche che si occupano dei problemi del settore assicurativo-previdenziale” eviti di saltare l’ostacolo, adottando la più semplice delle operazioni aritmetiche, cioè l’addizione, finendo così per sovrapporre i regimi prestazionali. Insomma, che si addentri con maggiore profondità in questa complessa materia: si pensi ancora al problema del raccordo fra diritto successorio e designazione del beneficiario (cfr. OG, n. 43).
Occorrerà che gli stessi fruitori del sistema, gli attuali aderenti e/o beneficiari, imparino ad utilizzare lo strumento Fondo pensione, ricercando le forme migliori di investimento e non si appiattiscano sul rendimento garantito, se non nella fase finale del c.d. ciclo vitale. In questo senso segnali ben precisi vengono dalle Considerazioni della Presidente Covip nel 2023, che, con opportuna cautela, sembra esprimere un ripensamento rispetto alle scelte effettuate dalla stessa Autorità nel 2007, dilatando l’ambito di operatività del comparto garantito, riservato esclusivamente dal legislatore agli aderenti per conferimento tacito (mio commento in OG, n. 54, p. 3, 4° cpv.)
Infine, tutti e tre gli attori del sistema ora citati, fondi pensione, iscritti, giurisprudenza, dovrebbero coordinarsi e - superando artificiose divergenze e pretestuose rappresentazioni di conflitti di interesse - dare soluzione al problema del recupero giudiziario dei contributi omessi (sul problema, vedi Cicero, in OG, n. 47). Qui, a mio avviso, il legislatore ha già fatto la sua parte con l’art. 1, c. 2, lett. e), n. 8 della legge delega 243/2004, che va letto separando la prima parte, ricognitiva di una situazione in essere, circa la contitolarità del diritto alla contribuzione e la legittimazione processuale concorrente, e la seconda parte, oggetto della inattuata delega, relativa al rafforzamento delle “modalità di riscossione, anche coattiva”: il termine “rafforzamento” presuppone un dato preesistente (spunti sulla questione della legittimazione ad agire si trovano, nel mio commento a Corte Cost. n. 154/21, Legittimazione ad agire del Fondo pensione tra interpretazione adeguatrice … e inerzia legislativa, OG, n. 50).
Senza pretesa di esaustività, questi, relativamente piccoli ma significativi, esempi evidenziano la necessità che tutti coloro che, a vario livello, sono coinvolti nel sistema pensionistico di secondo livello, svolgano il loro ruolo, avvalendosi di tutti gli strumenti che l’intero ordinamento (non il solo legislatore) offre.
Pasquale Sandulli
Pasquale Sandulli è attualmente Professore di Diritto del Lavoro nell’Univ. Europea di Roma, Previdenza complementare e Giustizia costituzionale del lavoro nella Luiss-Roma.
Tra i numerosi incarichi istituzionali, ha rivestito la carica di Esperto presso il Ministero del lavoro; componente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale e membro del collegio di conciliazione ed arbitrato dell'Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica
É collaboratore scientifico di Mefop dal 2005 e attualmente fa parte del comitato direttivo della "Riv. Dir. Sic. Sociale”.