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La riduzione delle pensioni più elevate è costituzionale per tre quinti
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La Corte si pronuncia ancora sulla “riduzione” delle pensioni più elevate (c.d. d’oro), con la sentenza n. 234/20, che ha già sollevato aspri commenti, alcuni diffusi prima ancora di conoscerne la motivazione, quasi a conferma che oramai il tema viene affrontato con tesi sostanzialmente precostituite, ancorché suggestive.
La sentenza nella prima parte si occupa anche della questione di legittimità delle norme di contenimento della perequazione (art. 1, c. 260, l. n. 145/18), ma questo primissimo commento è limitato solo al tema della “riduzione” (trattato in diritto, §§ 16 e ss.), pur nella consapevolezza che entrambe le questioni hanno – pur nella loro diversità – pari importanza.
La Corte ricorda che prima ancora delle sentenze n. 116/13 e 173/16, già nel 2003 con l’ord. n. 22 era stata rigettata la questione di legittimità costituzionale del contributo di solidarietà di cui all’art. 37 della l. n. 488/1999, applicato alle pensioni di importo superiore al massimale annuo contributivo indicato dall’art. 2, c. 18 della legge n. 335/95.
Con questa precisazione la nuova sentenza richiama e fa proprio uno dei passaggi dell’ordinanza 22/2003, in cui si rileva come uno degli elementi fondanti della scelta del legislatore fosse stato l’essere tale contributo
"posto a carico di una categoria di soggetti che, dati gli elevati livelli pensionistici raggiunti, ha evidentemente beneficiato di una costante presenza nel mercato del lavoro e della mancanza di qualsivoglia tetto contributivo" (§ 18.9);
ciò consente immediatamente di cogliere la capacità prospettica della 234, a prescindere dal profilo della riferibilità del contributo all’art. 23 o all’art. 53 Cost. – soluzione condividibile –, ed anche, almeno in parte, indipendentemente dal profilo della durata della “riduzione” in ragione della prospettata “esorbitanza rispetto all’orizzonte triennale del bilancio di previsione” ex art. 21 l. n. 196/2009, passaggio che va letto insieme con quello (§ 18, 12, secondo periodo) per cui “ogni intervento deve essere scrutinato nella sua singolarità e in relazione al quadro storico in cui si inserisce” così aprendo la strada ad una continuità discontinua, che la Corte definisce “reiterazione” – soluzione che sembra aprire a tante reiterazioni, ognuna per sé giustificata; ma su entrambi questi profili ci si riserva di tornare in altra occasione, salvo osservare fin da subito che la scelta tre su cinque non è salomonica, come pure si è letto, visto che Salomone alla fine lasciò intatto il pargoletto.
L’importanza del profilo sistematico della sentenza deriva non solo dalla opportuna ricostruzione cronologica che la Corte fa delle sue stesse decisioni, ma dalla constatazione che in questo gioco di rimbalzo fra Legislatore e Corte emerge un discutibile tentativo del Legislatore di nascondersi dietro una girandola terminologica: solidarietà nel 1999, perequazione nel 2011, di nuovo solidarietà nel 2013, addirittura brutalmente riduzione nel 2018; un legislatore alla ricerca di se stesso, che invece la Corte (§ 18.12, 2° per.) mette in salvo con una formula impegnativa e di portata generale, recuperata (cfr. § 15, 4, 2° per.) dalla sentenza n. 250/17, così giustificando la scelta di correlazione con l’orizzonte triennale del bilancio di previsione ex art.21 l. n. 196/09, determinante ai fini della parziale dichiarazione di incostituzionalità della riduzione oltre il terzo anno: del che, ripetesi, in altra sede.
La questione della legittimità della “riduzione” – come, d’altra parte, quella sul contenimento della perequazione – non solo è complessa in sé, ma si complica vieppiù man man che il legislatore reitera l’esperienza. Occorre perciò individuare gli snodi essenziali della sentenza e della sua trama, non necessariamente seguendone l’ordine di esposizione: anzi, è utile partire proprio dalla fine, cioè dall’ultimo periodo del § 18.12., ove si legge che ogni prelievo di solidarietà deve – ma, a questo punto, può – trovare la sua giustificazione e che il ripetersi di misure temporanee evidenzia una debolezza sistemica, risultando esse comunque inadeguate se coinvolgenti i soli redditi pensionistici.
Orbene, facendo qualche passo indietro, fino al § 18. 10, 2° per., si rileva che – nel ritenere non “estranee connotazioni generazionali” nella costituzione di fondi speciali ex commi 261, 263 e 265 – la Corte considera “pertinente” la linea di difesa dell’INPS che evoca il “ricambio generazionale” che si è “ritenuto di conseguire per il tramite del pensionamento anticipato in quota <100>”.
Non è dato comprendere se con questo passaggio la Corte abbia inteso avallare questa misura, o se si tratti solo di un gesto di cortesia verso la difesa dell’INPS, oppure ancora di una semplice presa d’atto; certo è che l’esiguità delle risorse provenienti dalla ”riduzione” a fronte dello spropositato impegno di spesa di “quota 100” (seppur non integralmente consumato), ed il discutibilissimo valore, come lo stesso fondamento, della stessa non possono considerarsi una valida giustificazione: anzi, fa un po’ sorridere che l’esiguo apporto della “riduzione” venga presentato come misura indotta dal serrato, e drammatico, confronto (definita “lunga interlocuzione” dalla stessa Corte nella nota ordinanza n. 17/19, sull’iter della legge di bilancio 2019) del nostro Governo con la Commissione UE (§ 18, 11, pen. periodo).
Piuttosto, la logica del mantenimento delle risorse nel circuito previdenziale (cavallo di battaglia della sentenza n. 173/16) ed il riconoscimento delle esigenze del ricambio generazionale applicate non tanto al mercato del lavoro (su cui il sistema previdenziale pensionistico reagisce prevalentemente attraverso la manovra contributiva agevolante nuova occupazione), quanto al sistema pensionistico in sé, trova ampio spazio in molti altri passaggi della sentenza, che questa volta non solo prende, semplicemente, atto (come nella sentenza n. 30/04) della riforma del 1995, ma mette a fuoco – ai fini della valutazione di costituzionalità dei rimedi, ancorché temporanei, alla crisi del sistema pensionistico – la circostanza che proprio la riforma del 1995 ha creato due semiplatee di destinatari profondamente dislivellate.
Una divisione, se non contrapposizione, che la Corte evidenzia laddove (§17.2) scrive
“… il giudizio di proporzionalità su base convenzionale relativo alle misure incidenti sui diritti pensionistici non è insensibile alla eventualità che questi siano originati da un sistema previdenziale di particolare favore nei confronti di una determinata platea di beneficiari”
(spunto tratto dalle note decisioni della Corte EDU rispetto al sistema portoghese); ma ancor più significativo è il passaggio successivo dello stesso paragrafo:
“Rilevano in questo senso le considerazioni che si faranno nel prosieguo riguardo ai vantaggi maturati dai pensionati soggetti al sistema retributivo rispetto a quelli soggetti al sistema contributivo, vantaggi al cospetto dei quali la decurtazione prevista dall’art. 1, c. 261, della legge n. 145 del 2018 manifesta una funzione di riequilibrio, per esserne esonerate, a norma del successivo comma 263, le <pensioni interamente liquidate con il sistema contributivo>”.
Si tratta di indicazioni che potrebbero segnare una svolta della giurisprudenza costituzionale e dello stesso sistema pensionistico, ponendo in evidenza un profilo di disuguaglianza che finisce per abbracciare l’intera platea dei soggetti che partecipano del sistema pensionistico; una disuguaglianza non semplicemente riconducibile ad un ordinario mutamento di regime, che segue, questo si senza violare l’art. 3 Cost., l’inesorabile successione delle leggi nel tempo, ma che comporta una sistematica e protratta nel tempo comparazione di regimi pensionistici diversi retti dal medesimo principio costituzionale dei mezzi adeguati, tanto più evidente con il trascorrere del tempo alla luce del solenne incipit dell’art. 1, specialmente comma 1, della legge n. 335/95.
Affermazioni che si presentano come sviluppo dell’auspicio che si potesse conseguire quella consapevolezza dei pensionati ad elevata prestazione, invocata da Corte cost. n. 173/16 (§11.1. 4° periodo); consapevolezza che non sembra cresciuta in questi anni: anzi, se solo si considera la velocità con la quale è stata presentata la prima ordinanza alla Corte costituzionale, sembra diminuita.
Nel 2015, in occasione del quindicennale della Rivista del diritto della Sicurezza sociale, chi scrive ebbe modo di rappresentare – ma non c’era grande originalità in questo – che, a distanza ora di 25 anni da quella riforma, la popolazione italiana risultava sostanzialmente spaccata in due: un po’ meno della metà – in larga parte già pensionata – titolare di un rapporto previdenziale di tipo retributivo, mediamente elevato, a fronte della restante popolazione dei futuri pensionandi rientrante nell’alveo del progrediente metodo contributivo, con l’aggravante che si tratta della platea più colpita dalla crisi del mercato del lavoro (in termini di precarietà e di più modesti livelli di retribuzione); un metodo di calcolo che, proprio grazie alla scelta di specularità/corrispettività con la vita professionale, incide significativamente sulla adeguatezza, fin dal loro calcolo iniziale, delle future prestazioni pensionistiche, così da tagliare definitivamente il cordone ombelicale fra art. 36 ed art. 38 Cost., e da rendere anacronistico la fascinosa formula del “merito”, secondo quello che era un risalente criterio affermatosi nella storia dei rapporti fra lo Stato ed i suoi dipendenti, su basi ben diverse da quelle attuali.
Sono passaggi impliciti nella riferita apertura della Corte: è troppo pensare che, nel rispetto del principio di affidamento, destinato a confrontarsi quotidianamente con la crisi economica e sociale del Paese, aggravata in una purtroppo lunga proiezione dagli effetti sanitari ed economici della pandemia, si delineino, con la necessaria gradualità, tanti spezzoni temporali (opportunamente riconducibili al triennio previsionale), ognuno fondante una ragionevole misura di contenimento delle prestazioni su base retributiva. Si profila dunque una reiterazione di rimedi, diversi o anche ripetitivi, all’insegna della continuità discontinua: e potrebbe non bastare!
Pasquale Sandulli
Pasquale Sandulli è attualmente Professore di Diritto del Lavoro nell’Univ. Europea di Roma, Previdenza complementare e Giustizia costituzionale del lavoro nella Luiss-Roma.
Tra i numerosi incarichi istituzionali, ha rivestito la carica di Esperto presso il Ministero del lavoro; componente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale e membro del collegio di conciliazione ed arbitrato dell'Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica
É collaboratore scientifico di Mefop dal 2005 e attualmente fa parte del comitato direttivo della "Riv. Dir. Sic. Sociale”.